Procediamo con i miei esercizi da narratore. A seguire un pezzo scritto per un racconto a più mani. I toni decisamente cupi e crudi lo rendono un'ottimo antidoto per il tanto schifato finale del precedente racconto. Spero vi piaccia. Nota (non è autoconclusivo, per ovvie ragioni).
- Forse non ci siamo capiti…non ti sto chiedendo se ti va di andare a fare il culo a quella feccia infetta, ti sto ORDINANDO DI FARE IL FOTTUTO CULO A QUELLA FECCIA INFETTA! Gli ordini del Comitato non si discutono, si eseguono!
La faccia del sergente sembra sul punto di esplodere. Un'unica verruca pulsante, rossa da dare il voltastomaco, strizzata dentro il ridicolo cappellino nero della guardia. Gli occhi porcini, arrossati di capillari dall’eccesso d’ira, si fanno ancora più piccoli tra il lardo gonfio e sudaticcio.
Fa terribilmente caldo. Il sudore mi cola copioso lungo il collo. Forse devo stare zitto, stare zitto e fare quello che mi viene detto…ma cazzo, mi fa schifo! Cazzo! Possono dire quello che vogliono ma quelli sono ancora esseri umani. Almeno la maggior parte di loro lo sembrano.
- Allora!? Per la fottuta puttana che era quella gran mignatta rottinculo di tua madre! Allora!? Che fai? Cos’è quella faccia da ebete? Mi hai sentito, ridicolo ammasso di sterco?
Lo sentivo, anche se quel vociare greve sembrava provenire da una distanza grandissima, da centinaia di chilometri nel Deserto di Vetro. Il fetore del suo alito purtroppo era molto più vicino e tangibile, il contatto della sua saliva sul mio viso bollente, spellato dal sole.
- Si…si signore. Ho sentito.
- Bene! Allora prendi quel fottuto ferro e rimettiti in riga con gli altri!
Sollevo il fucile, il rostro e la bisaccia con le fiasche incendiarie. Ho sempre paura di finire incenerito. Non sarei il primo a cui succede. Sono troppo fragili. Il sole arroventa la piazza d'armi, tutto puzza di polvere.
- Tayler, muoviti! cazzo non li vedi? Quella casa è piena. Che aspetti, che ti appestino? Hey, Lev…porta qui quel lanciafiamme, c’è spazzatura da bruciare!
Ed fa tutto meccanicamente, come fosse la cosa più comune del mondo, la più banale, come se non stesse privando della vita creature ancora fin troppo umane.
Se ne stanno rintanati negli angoli, si infilano in ogni pertugio che riescono a trovare, come grossi scarafaggi. Alcuni di loro sono minuti, bassi, più degli altri, si potrebbe pensare che si tratti di bambini ma ci hanno detto che non si riproducono, che sono sterili. Ci hanno detto che l’unico modo che hanno per moltiplicarsi è infettare gente sana. Nessuno ha capito come avvenga, ma tutti ne hanno una paura fottuta.
- Qui, qui, dagli una bella sfiammata…hehe…fammeli belli croccanti. cazzo come puzzano! Sbrigati, non credo che mi diano altro rancio se tiro su quello che ho appena mangiato.
Ne abbiamo chiusi una dozzina tra le macerie di un palazzo di mattoni rossi di cui non restano che le mura del pian terreno. Si ammucchiano uno addosso all’altro. Stracci laceri e pelle biancastra rigata da striature azzurre, muscoli atrofici ed ossa sporgenti. Sui crani oblunghi, sparuti peli grigi. Tagli malamente rimarginati sull’intera superficie dei corpi piegati ed artritici.
Li stiamo stringendo, come prevede la procedura. Lew ha un sorriso sporco e giallo da qualche parte tra la fuliggine, un sorriso che strizza un mozzicone di sigaro. Armeggia con la valvola di sicurezza del lanciafiamme. La fiammella davanti all’ugello crepita impaziente.
Più ci avviciniamo e più quegli esseri si agitano. I loro occhi, esposti tra palpebre consumate, velati da una malsana pellicola biancastra, si accendono di metallica e febbrile angoscia. Quelli più piccoli si rintanano dietro gli altri, si artigliano vicendevolmente, terrorizzati. Emettono uno stridio agghiacciante, suoni acuti e ferini di bestie in trappola.
Il più alto, più vicino a noi, si gira di scatto brandendo un tubo di metallo evidentemente troppo pesante per le sue braccia rachitiche. Digrigna denti appuntiti in una parodia di bocca senza labbra. Sventola sgraziatamente l’arma improvvisata davanti a se. Ed gli saltella davanti evitando con facilità i fendenti abbozzati.
- Hei…hei, hei! C’eri quasi fogna, qualche centimetro…hop…mancato…hei ragazzi, guardatelo, ci si mette d’impegno. Tom, secondo me se la cava meglio di te…hop. Brava bestiaccia, stai migliorando, continua così.
- Stai zitto stronzo. E smettila di giocarci! Abbiamo ancora tre isolati da fare e mi hanno già fatto venire il voltastomaco.
- Hai sentito la signorina? L’hai sentita fogna? Non possiamo più giocare, non vorrai fargli venire il mal di pancia vero?
La creatura si lancia in un affondo. Ed scarta di lato e le assesta un colpo con il calcio del fucile. La mandibola va in frantumi, la povera figura martoriata finisce a terra contro le gambe di Tom, quello urla e la calcia via verso i suoi simili.
- Ci siamo divertiti abbastanza bambini. È ora di pranzo, faremo un bel barbecue.
Ed e Tom si allontano. Lew cominciò a cospargere quel cumulo di pallida disperazione con cherosene incendiato. Una risata grottesca gli erompe dalla gola e si fa spazio tra i denti stretti intorno al mozzicone fumante del sigaro. Mentre tiene premuto il grilletto, pian piano, il suo intero corpo è scosso da quella oscena ilarità.
Quell’uomo non è persuaso a fare una cosa orribile credendola giusta, sta solo facendo una cosa che lo diverte. Il potere ardente che gli scaturisce tra le mani lo inebria, lo inebria l’odore chimico del cherosene che brucia, lo inebria quello dolciastro della carne che brucia. La sua faccia nera d’inferno, gronda sudore lurido sui lineamenti contratti dal godimento.
Gli altri due, con lunghe forche metalliche, ricacciano i fuggitivi verso le fiamme voraci.
I loro corpi avvampano come sterpaglie secche, scoppiettano e si accartocciano. La pelle pallida e delicata si stacca, sfrigola, brunisce per poi carbonizzarsi. Gli occhi, quei grandi occhi lattei, un misto liquido di orrore e odio, mi fissano con l’intensità degli ultimi istanti di vita, prima di colar fuori dalle orbite. Lo stridore delle loro gole consumate mi penetra nella mente, oltre il rombo del fuoco, oltre le risa oscene, oltre il dileggiare degli altri carnefici. Aguzzo trapassa ogni pensiero ed inchioda la mia consapevolezza. Una mano gelida mi stringe i visceri, mentre l’infernale calore la cui eco più blanda mi investe il viso, trasforma quei corpi miserabili, privandoli di ogni integrità, d’ogni umidità vitale.
Lascio cadere il mio rostro e corro all’esterno. Sento l’acido alla base della lingua. Il mio disgusto, la mia colpa, erompono in un getto verde sull’asfalto nero ricoperto di sabbia. Cado in ginocchio reggendomi lo stomaco. Quegli occhi, quelle urla mi perseguitano. Non ho bisogno di vedere il massacro, il massacro è dentro di me. Continuo a vomitare. Alla fine i conati non spremono che succhi gastrici.
Il pesante anfibio arriva contro le costole senza che io ne abbia il minimo avviso. Cado a terra supino, il fiato spezzato.
- Che cazzo ti prende stronzo!? Si può sapere che cazzo credi di fare!? Non puoi scappare dal tuo fottuto lavoro. Quella merda deve bruciare, bruciare! Mi hai sentito?!
Ed mi sferra un altro calcio, poi un altro e un altro ancora, con foga, con cattiveria.
- In questo mondo di merda non c’è posto per i codardi. Nella mia fottutissima squadra non c’è posto per i codardi. Non mi posso fidare ti te. Non mi va di essere divorato da quegli scarafaggi disgustosi. Non voglio che mi infettino.
Qualcosa si è rotto. Sento sapore di sangue e respiro a fatica. La testa mi ronza, come un vecchio lampione che fa troppa resistenza e il dolore mi artiglia tutto il corpo mentre mi raggomitolo per proteggermi dai colpi.
- Perché non fai un atto misericordioso Ed? Perché non lo ammazzi?
Lew sta appoggiato al muro di mattoni rossi, appena fuori dal mattatoio improvvisato. Dietro di lui un fumo nero e denso si alza verso il cielo. Ha ancora una smorfia compiaciuta. Nei suoi occhi slavati c’è un perfido divertimento. Si riaccende il sigaro con la fiammella del lanciafiamme e tira due lunghe boccate. Fuma, come un amante che si rilassa dopo aver consumato.
Ed lo fissa per un po’, la faccia pensosa, poi torna a guardare verso di me e sogghigna.
- Già, potrebbe essere una buona idea. Magari è la volta buona che ti levi dai piedi, no Dunst? Magari il prossimo che ci mandano non sarà un finocchietto del cazzo, uhm? Che ne pensi, può essere?
Ed fa scivolare fuori dal fodero il suo coltello seghettato. Il riflesso sulla lama mi abbaglia. Si china su di me e mi spinge il ginocchio sul torace. La lama mi bacia la gola e un rivolo di sangue caldo comincia a scivolarmi sul collo.
Che mi uccida. Non ho motivi per continuare a vivere. Chiudo gli occhi e prego che faccia in fretta.
- Finitela! Siete impazziti? Avete presente quante grane se dobbiamo spiegare com’è morto?
Riapro gli occhi e piego la testa di lato. Tom si sta avvicinando.
- Cazzate, basterà combinare la cosa in modo che sembri un incidente. Un lavoretto pulito.
Avviene in un attimo, in un solo secondo. Ed adesso è a terra fianco a me. Tom urla. Lew impreca. Non capisco da dove siano usciti. Nessuno di noi li ha sentiti venire. Si avventano sui miei aguzzini e li sommergono.
Ed è già morto. Il suo cranio si è fracassato contro una grossa roccia puntuta e ora la sua faccia è lorda di fango e di vomito. Tom strepita mentre quelle creature esili e malaticce gli squarciano il ventre ed è ancora vivo mentre gli affondano i dentini aguzzi negli intestini e li lacerano con colpi secchi del collo. Lew è più resistente, li afferra per il collo e gli spezza la spina dorsale con la sola forza delle sue mani immense, ma sono troppi, gli si arrampicano addosso, lo graffiano, lo mordono. Uno gli si avventa sui polpacci vorace, folle. Lew cade e sparisce in quel mare di arti rachitici, denti, unghie, occhi rabbiosi. Lo zaino con la bombola di cherosene si stacca e cade poco lontano. Se esplode moriremo tutti. Ma non succede.
Sono immobile per il pestaggio e per la paura. Credo di essermi pisciato addosso, ma non ne sono sicuro, il dolore copre ogni cosa.
Improvvisamente due piedi artritici mi coprono la scena. Sono su di me. Mentre le loro dita aguzze cominciano ad afferrarmi, i loro piccoli pugni spigolosi ad abbattersi su di me, un boato copre ogni cosa. Luce bianca. Calore infernale. Poi solo oscurità, oscurità e silenzio.
Le voci fecero scattare qualcosa in me. Potrei chiamarlo istinto di sopravvivenza, ma non renderebbe l’idea. È qualcosa di estremamente raffinato che spinge la mia mente in uno stato di concentrazione perfetta.
Adagiai delicatamente la ragazza su una stuoia mangiata dalle cimici nell’angolo più asciutto della stanza. Mi concessi il tempo per carezzarle il viso e chiudere le palpebre sui suoi occhi castani, così profondi da sembrare ancora vivi. Quella pelle pallida e fredda urlava la mia colpa, ma non c’era tempo, dovevo sopravvivere, sopravvivere per potermi lacerare l’anima e perdere ancora un altro brandello di umanità.
Saettai silenzioso verso la tromba delle scale, i sensi in allerta. Pioggia che batteva su pietra, su fango, su cuoio, su pelle, su capelli, su rabbia. Suole di gomma, di legno battevano impazienti. Schianti di porte, finestre, vetri frantumati tre piani più sotto. Minacce urlate con la spavalderia del numero, con la tracotanza di chi porta il fuoco, il fuoco che scaccia l’oscurità, che arde l’empietà, che purifica.
Due spari al cielo. Quei suoni mi parlarono chiari come un libro stampato: un gauge 20, fucile da caccia, un hammer gun probabilmente, e un arma autocostruita, messa insieme con non troppa maestria, non ci avrebbe messo troppo ad esplodere in faccia a chi la imbracciava. Non avevo idea di come facessi a sapere tutto questo. Ma non era importante.
Una voce forte, sicura incita i compagni, nel nome di un dio dimenticato che ha lasciato i suoi figli vivi dopo l’apocalisse, li sprona ad abbattere i servi del maligno, le bestie empie che la follia dell’uomo ha creato.