Era da tanto tempo che non uscivo di casa di pomeriggio. Avevo dimenticato quanto possa essere triste il sole invernale, specie in una giornata serena. Ha qualcosa di intrinsecamente malinconico. La luce, la luce è come fosse antica, stanca, sembra quasi di poter intuire l’enormità della distanza che ha percorso prima di scivolare obliqua su tetti, su siepi e muretti.
La banca non è affatto accogliente. Sicuramente una banca non è il primo posto a cui penso quando devo pensare ad un posto accogliente, ma ne ho viste di migliori. Una banca dovrebbe essere accogliente, almeno un po’…d’altronde la pianta carnivora attrae l’insetto con colori audaci e forme invitanti. Comunque questa banca non è accogliente.
Il cilindro di vetro blindato con apertura alternata attraverso cui devo passare solletica una claustrofobia che non sapevo di avere. La mia mente corre a squallidi scenari futuribili dove l’aggettivo umano indica un affezione e dove l’asetticità inorganica impera. L’interno non fa che incoraggiare questi pensieri: enormi blocchi di plastica verde occupano la maggior parte dello spazio tra il soffitto basso ed il pavimento di linoleum nero a cerchietti in rilievo. Gli impiegati occhieggiano da nicchie ingombre di modelli, monitor e tastiere.
Mentre mio padre fornisce gli estremi, noto l’impiegato all’altro sportello. Sicuramente è più giovane di me: imberbe, con la faccia da scolaretto coscienzioso. Probabilmente ha appena finito il liceo. L’altezza notevole, sempre più comune tra i nuovi ipernutriti, non riesce a mitigare a sufficienza la dissonanza tra il suo viso e gli elegantissimi paramenti da bancario. Il pesante orologio d’acciaio sembra volergli slogare un polso troppo esile. Da bravo apprendista, osserva i colleghi e fa domande, si giustifica se gli viene rinfacciato qualche errore e fa pratica.
Nelle facce dei colleghi più anziani vedo i giorni del suo futuro, giorni di sicura e sorridente stabilità, giorni di bagordi costosi, di vizi elitari ma non troppo, giorni di eccessi a tempo e di perfetta puntualità, di professionalità, di conti, di moduli, di telefonate. Forse, più in là, quando la gioventù rimasta sarà stata consumata nelle ore serali e nei week-end, giorni di famiglia da pubblicità delle merendine e di carriera, giorni di panni sporchi lavati in casa (con gli avvocati), di figli viziati ed antiempatici, e di pubbliche virtù, giorni di voto sicuro e consapevolmente inconsapevole, di sfizi costosi, di auto lucenti, di vacanze assolate dekamikazzizate, di benessere che aspira ad essere lusso e quando può lo diventa. Infine, giorni di solitudine, magari in una villetta sui colli toscani a fare il “padrone in casa propria”, su una sedia di vimini sotto il pergolato, con una coperta di lana sulle gambe ed una giacca da camera di velluto rosso, giorni passati ad aspettare di occupare il posto pagato nella cripta di famiglia con dei fiori appassiti davanti e ripensare a tutto questo.
Quando esco guardo mio padre, le sue spalle. Non è un uomo alto ed il tempo della venerazione è passato da molto, ma sta passando anche quello della disillusione. Ora posso stimarlo per le sue qualità di essere umano, al netto dei suoi difetti, posso provare un affetto più sincero e spontaneo. Ora so cosa può insegnarmi e desidero consapevolmente impararlo.
Mentre la macchina fila nel traffico e gli ultimi discorsi sul cielo terso ed il freddo mite si spengono, la mia mente arranca dietro all’essenza del diventare adulti, al mutamento sottile che ti trasforma quando diventi pienamente responsabile dei tuoi 13 dollari circa di materiale organico e di tutto quello che qualunque metafisica possa vederci accluso. Arranca dietro alla prospettiva nuova che ti fa scoprire significati diversi in cose che prima detestavi e rende più quotidiane cose prima eccezionali, che ti fa amare la routine di una vita regolare, che indirizza i tuoi pensieri entro argini sempre più solidi e che piega le tue emozioni alle necessità della prassi.
Non ho ancora idea di quando mi toccherà tutto questo, di che forma avrà e di come mi cambierà. Ne ho paura, ma una paura calma, rassegnata all’ineluttabile che lascia spazio alla curiosità: cosa e quanto resterà di me…?